Un regalo ……
Percorrevamo il lungomare camminando senza fretta. Di tanto in tanto, con le dita
sfioravo il basso muretto oltre il quale frangevano piccole onde prodotte dalle barche
in transito. Un vento leggero mi lambiva la parte alta delle gambe, ed accarezzava la
mia nudita’ esposta al suo alito. Mi aveva voluta cosi’ quella sera: depilata, senza
mutandine, con le calze di seta e ed una gonna non corta ma ampia. Ed io lo avevo
accontentato, come sempre facevo. Non era facile dirgli di no. E poi, quelle sue
proposte un po’ indecenti che riuscivano sempre a rendere reali i miei desideri, non
mi dispiacevano.
La’, dove il parco costeggia il mare ci appoggiammo al parapetto a guardare il cielo
senza luna e le luci della citta’ che si riflettevano tremolanti nello specchio nero
dell’acqua.
– Apri le gambe – mi ordino’.
– Ma ci vedranno…
– Non importa, non discutere. Aprile e basta.
Ed io lo feci. Quell’improvvisa sensazione di fresco proprio li’, pochi centimetri
sopra l’orlo della gonna, mi rese consapevole d’essere pronta a ricevere ogni carezza,
e mi sentii sciogliere dentro. Si mise dietro di me e mi avvolse con le braccia in un
gesto che, per chi ci avesse osservato distrattamente, sarebbe potuto apparire persino
innocente.
– Ti piace essere nuda, vero? – mi sussurro’ all’orecchio.
– Si’, mi fa sentire desiderabile e disinibita…
– Ti senti troia?
– Si’…
– Aprile ancora un po’…
– Che intenzioni hai? Cosa vuoi fare?
– Voglio che ti ecciti. – disse stringendosi piu’ forte contro il mio sedere, premendo il
suo membro duro sui miei glutei – Mi senti?
– Certo… come potrei non sentirti?..
– Hai voglia?
– Sono gia’ bagnata…
– Si’, lo sei – disse annusando l’aria che, in modo impercettibile, iniziava ad odorare
di me – ma non e’ il momento adesso. Prima andiamo a cena. Ho un regalo per te.
Al ristorante chiese un tavolo d’angolo piuttosto in disparte, e mi fece sedere con le
spalle rivolte alla parete cosicche’ fossi il piu’ possibile al riparo dagli sguardi della
gente. Prese poi in mano un chicco d’uva, uno di quegli acini grossi di forma
ovoidale e la buccia spessa e lucida. Lo stacco’ da un graspo riposto nel portafrutta
che adornava il tavolo ed accenno’ a metterlo in bocca, ma non lo fece.
Semplicemente, si limito’ ad appoggiarvi le labbra.
– Stasera sei bellissima, lo sai?
– Si’? – dissi lusingata.
– Vorrei che ti accarezzassi con questo… – sussurro’ porgendomi l’acino – la tovaglia
e’ lunga e nessuno ti vedra’. E poi, se anche ti vedono, che importanza ha?
Erano quelli i momenti in cui la mia sensualita’ entrava in sintonia con la sua: quando
mi faceva capire che il mondo intorno a noi non esisteva, che eravamo soltanto noi
due importanti e che ci saremmo potuti fidare l’una dell’altro fino in fondo. Come
una squadra. Intimita’, complicita’, sincerita’, lealta’, passione… quale mix poteva
essere migliore?
Guardandolo fisso negli occhi mi passai la lingua sulle labbra e, senza fretta, bagnai
quel chicco con la saliva. Poi, dopo aver dato una fugace occhiata intorno per
controllare che nessuno mi guardasse, muovendomi con lentezza portai la mano in
grembo ed iniziai a sfiorarmi una coscia, risalendo piano verso l’inguine.
– Lo stai facendo?
– Ci sto arrivando. Ecco… mi sto accarezzando…
– Com’e’? Raccontami…
– Sto salendo e scendendo piano piano…
– Bene, adesso mettilo dentro. Infilalo lentamente e spingilo.
– Lo sto facendo… – dissi sentendo che il mio corpo iniziava a reagire a quello
stimolo.
– Sta arrivando il cameriere, non muoverti. Stai ferma o capira’.
Fece l’ordinazione anche per me, mentre io in silenzio tentavo di restare fredda e
distaccata, senza riuscirci. E forse arrossii un po’ di vergogna avendo la sensazione
che il cameriere si fosse accorto di qualcosa.
– Cosa stai pensando? – mi chiese dopo che il cameriere si fu allontanato.
– Penseranno che sono una ninfomane… una troia – sussurrai.
– Non e’ quello che hai detto prima? Che ti senti troia? Che t’importa di quello che
pensano gli altri? Conta solo cio’ che pensi tu di te stessa. Il tuo corpo appartiene solo
a te, e ci fai quello che vuoi.
– Un po’ appartiene anche a te… – Dissi con un po’ di malizia, facendomi sfuggire un
leggero sarcasmo che, sapevo bene, lui non gradiva ma che talvolta mi usciva quando
volevo ristabilire quel debole equilibrio che troppo spesso pendeva dalla sua sola
parte.
– Adesso metti dentro anche questo – disse porgendomi un secondo acino,
continuando con quel suo gioco che, lo sentivo, iniziava a coinvolgermi. Presi anche
quel chicco. Lo succhiai leggermente per lubrificarlo e di nuovo finsi di mettere le
mani in grembo. Appoggiandolo al mio sesso, lo feci scivolare dentro senza fatica.
– Brava. Ora accavalla le gambe. Ti piace?
– Si’… e’ bellissimo… – risposi con voce roca – non l’avrei mai detto…
– Adesso mangiamo. In modo naturale, se ci riesci – disse con aria divertita,
conoscendo bene l’effetto che provocavano dentro di me quei chicchi d’uva.
Cercai di arrivare al termine della cena restando impassibile. Non riuscii a mangiare
molto, la mia testa era altrove. Era una situazione inusuale e la sensazione che
provavo era sublime. Non solo per il piacere fisico, in quel momento mi sentivo
oscena, senza pudore, languida, sensuale, folle, porca… e lui, conoscendomi, lo
sapeva che tutto cio’ mi mandava in estasi.
– Fammeli vedere, adesso. Tirali fuori – disse, pulendosi la bocca col tovagliolo,
quando ebbe terminato il suo piatto.
Spingendo, li estrassi piano, mordendomi le labbra e li posai sul tavolo, sulla tovaglia
bianca. Erano lucidi, ricoperti della mia rugiada trasparente e vischiosa. Lui, con
naturalezza, li prese e li mise in bocca. Prima li succhio’ assaporandoli e poi, come se
fossero stati i frutti piu’ deliziosi di questo mondo, li mangio’.
– Era questo il regalo di cui mi parlavi? – chiesi a quel punto.
– No. Tutto questo, finora, era il regalo per me. Il tuo e’ un altro. Eccolo. – disse
porgendomi un pacchetto.
Lo aprii, curiosa, e dentro vi trovai una scatolina che conteneva due sfere in lattice,
simili alle palline da ping pong ma piu’ pesanti ed unite da un cordino di seta.
– Sono le palline Ben Wa, dette impropriamente palline cinesi ma non sono originarie
della Cina – si affretto’ a spiegarmi vedendo la mia faccia un po’ stupita di fronte a
quell’insolito giocattolo – Sono conosciute anche come le palline della geisha. In
Giappone le chiamano rin no tama, campanelline tintinnanti, perche’ sono cave e
contengono un piccolo peso che, muovendosi al loro interno, le fa vibrare. Adesso
provale e dimmi se ti piacciono piu’ dell’uva…
Le portai in grembo e seguendo lo stesso rituale degli acini, muovendomi piano,
allargando le gambe, una alla volta le inserii spingendomele dentro con le dita. Ebbi
un brivido inatteso e non seppi soffocare un gemito di piacere. Lo guardai con occhi
imploranti, pregandolo di portarmi via da li’, a casa oppure giusto fuori dal locale, in
un luogo appartato dove avrei potuto avere cio’ che in quel momento volevo di piu’
ma lui, facendo finta di nulla, continuo’ a parlare. Calmo.
– Adesso credo che tu debba alzarti, andare in bagno e finire da sola. Io ti attendero’
qui. Non c’e’ fretta. Prenditi tutto il tempo che vuoi. Usa i muscoli per tenerle in
posizione, perche’ non devono caderti mentre cammini.
Mi diressi verso il bagno camminando lentamente per paura che le palline uscissero e
cadessero sul pavimento. La sensazione che mi procurava quell’oggetto estraneo che
vibrava dentro di me era qualcosa di mai provato, ed ogni movimento, anche il piu’
piccolo, aggiungeva un ulteriore stimolo a quella vibrazione facendo entrare in
risonanza tutto il mio corpo. So che avrei dovuto sentirmi in imbarazzo, non solo per
l’andatura impacciata che avevo ma per quell’odore inconfondibile di desiderio che
emanavo, pero’ in fondo che m’importava? Non dovevo preoccuparmi del giudizio
della gente. Come diceva lui, ero libera. Libera di sentirmi troia. Libera di fare col
mio corpo tutto cio’ che volevo. Libera…
E nel bagno di quel ristorante, in piedi, guardandomi allo specchio, infine venni.